Maria Lucia Tangorra, ArtiMag

Luglio 2021

Milena Mancini: «Non ho paura di cambiare mai»

Sposerò Biagio Antonacci

Quando hai l’opportunità di rapportarti con MILENA MANCINI puoi avere la fortuna che si crei, sin da subito, un feeling sempre più unico che raro. Questo è dovuto anche – e forse in primis – al suo approccio: schietto, appassionato, di chi ti guarda negli occhi anche mentre sta toccando tematiche dolorose come l’annosa questione dei femminicidi o di chi con la voce rotta e con estremo pudore fa riferimento alla perdita del proprio padre. Tutto ciò non può non toccare l’interlocutore e questo viene ancora di più sentito sulla pelle con mano se avrete modo di assistere, ma verrebbe da dire partecipare a “Sposerò Biagio Antonacci”, scritto e incarnato da lei, con la direzione di Vinicio Marchioni (Produzione Anton Art House).
Il debutto assoluto è avvenuto sabato 26 giugno al Campania Teatro Festival 2021 (ora sta alla lungimiranza dei teatri accoglierlo), dove, il giorno successivo alla prima, abbiamo avuto modo di incontrare l’artista – questo è l’appellativo che si merita tenendo conto della versatilità che dimostra non solo sul palco, ma anche nell’attraversare varie forme di creazione.

D: Milena, da dove parte l’idea di questo monologo?

«Quando Vinicio era in scena con “La più lunga ora” al teatro Cometa Off di Roma (prima di debuttare all’Eliseo), tramite lui ho scoperto meglio Dino Campana e ho conosciuto la storia di Sibilla Aleramo, la quale è stata la prima donna a denunciare la violenza subita dal marito e, successivamente, quella ricevuta dallo stesso Campana. Mia suocera mi regalò una versione degli anni ’60 di “Una donna” (si potrebbe definire il più celebre libro dell’autrice, anche divenuto un ‘manifesto’, nda), un po’ spaginata, vissuta ed ho avuto come la sensazione di aver ricevuto qualcosa da parte di Sibilla [la Mancini è una donna molto istintiva e per lei è importantissimo il contatto, tanto che tiene a sottolineare come lei legga ancora libri cartacei, quasi a voler – in questo caso – toccare con mano quelle pagine come se fossero scritte a mano dall’autore di turno]. Ho letto che “Una donna” era stato tra i libri più tradotti in tutto il mondo e quello è stato il seme di questo argomento legato alla violenza di genere e a come le donne reagiscono.
Dopo che nel corso del lockdown i numeri sono saliti vertiginosamente, mi sono interrogata su come la società vedesse oggi la figura femminile. Desideravo realizzare un ritratto della donna di oggi: appunto cosa la società pretenda da lei, le cattiverie gratuite, il giudizio, siamo sempre più distanti l’una con l’altra, invece, a mio parere, noi donne dovremmo parlare maggiormente tra di noi. Dividi et impera lo stanno attuando benissimo attraverso l’immagine e i contenuti, siamo sempre sottoposte a giudizio… facendo queste riflessioni mi sono chiesta: come si sente una donna che sta combattendo una battaglia? Ognuno di noi combatte la propria. Non possiamo sapere se la signora seduta di fronte a noi sia felice o meno o se ha il padre o un parente caro che sta male; ciascuno vive il dolore a modo proprio, purtroppo noi non abbiamo questa percezione. Secondo me dovremmo essere un po’ più rispettosi rispetto a tutti, ancor più in questo momento storico in cui ci obbligano a stare lontani gli uni dagli altri. Per i quantisti non c’è un vuoto; invece io credo che se questo spazio tra l’una e l’altra lo riempissimo con il rispetto, con l’amore, con la coalizione e col parlarsi – soprattutto quest’ultimo atto si è perso perché prevalgono sempre più giudizi e pregiudizi – sarebbe diverso…».

D: Lei cita nel monologo un aspetto molto spesso sottolineato e oggetto di ‘pettegolezzo’ e forma mentis: la donna deve ‘fare’ i figli…

«Ci tenevo ad affrontare pure questo punto: sembra che, a un tratto, per forza di cose, si debba diventare madre; ma chi lo ha detto? Magari non ci sono i presupposti o esistono delle donne, di cui ho molto rispetto, che sono consapevoli di non essere pronte per ricoprire la figura genitoriale, potrebbero anche essere deleterie per un essere umano e decidono di non farlo. Ritengo che sia un sintomo di intelligenza».

D: Come ha creato il giusto equilibrio tra le citazioni che desiderava fare (da specifici libri, cartoni animati e film) e il suo mondo familiare?

«Sono partita dallo studiare il profilo psicologico di determinate donne che suscitano violenza negli uomini e ho colto come avessero specifiche caratteristiche: hanno sempre un senso di colpa, sono state cresciute e/o loro stesse si sono percepite come vittime e come incapaci di fare qualcosa. Inoltre, invece di affrontare la realtà si costruiscono dei mondi immaginari. Non ho una sorella, sono la terza di tre figli; approfondendo i vari casi ho notato come le prime vengano trattate in un modo e le seconde in un altro e questo porta a una conseguenza specifica nel compagno che, ad esempio, la prima trova per sé, completamente differente da quello della seconda.
Ho immaginato il profilo psicologico di Anna interrogandomi su quali delle mie esperienze potessero essere adattate ed entrare nella narrazione. Partendo da questi presupposti ho ipotizzato di avere una sorella maggiore, status che portava a un’aspettativa da parte del padre nei confronti della protagonista. Potrei dire che gli unici aspetti veri sono la mia grande passione per Biagio Antonacci, il fatto che mio padre sia realmente nato durante il terremoto e ciò che racconto di mia nonna. Ho realmente dovuto affrontare la morte di mio zio l’ultimo dell’anno ed è stato molto complicato, quando ho telefonato ai carabinieri non ci credevano e ti senti impotente e spaesato poiché non sai cosa fare, anche perché l’ambulanza non avrebbe avuto senso farla venire essendo deceduto. Ricordo che nonna, molto più anziana di questo mio zio scomparso (era il marito della figlia), disse: “quella – riferendosi alla morte e defininendola ‘l’amica uncinata’ – avrebbe dovuto prendere me, si è sbagliata [già solo ripercorrendo questi passaggi così forti in un dialogo sale naturalmente la pelle d’oca, potete immaginare cosa la Mancini riesca a fare, apparentemente immobile sulla sedia, ma dove gesto e azione sono piccoli, ma ben pensati e sintomatici]. Mi sembrava importante che Anna avesse una serie di lutti improvvisi che arrivassero a farla sentire incapace di lottare contro la vita e la morte. Doveva arrivare a percepire la morte come qualcosa di brusco e al contempo giustificata e giusta».

D: Citando una battuta specifica di Anna: «Io sopravvivo grazie agli schemi». In quanto donna e artista cosa vorrebbe dire alle persone che vivono di schemi mentali ‘trincerandosi dietro una corazza’?

«Domanderei in primis come facciano. Ritengo di avere un’integrità morale e un rispetto per cui determinate cose non le farei mai sia per educazione sia per istinto personale. Quando vedo che c’è chi ha degli schemi e ci vive bene, lo rispetto: se sta bene nello schema che si è costruito/a e gli/le serve come ancora per non perdersi nel mare della vita, grande rispetto perché ci riesce; io non ce la farei. Io non ho paura di cambiare mai: quando sono passata dalla danza alla recitazione non ho avuto un attimo di paura; ho provato una grande spinta verso aspetti che non conoscevo. Mi piace tantissimo studiare, sono una persona curiosa [e ci permettiamo di aggiungere che è molto contagiosa in questo]».D: Tanto di cappello che riescono a rispettarli, spesso ci si ritrova a soffrire quando questi schemi mentali vengono adottati anche da persone care e ci si accorge che si perdono, forse, tanta vita per strada…

«Io rispetto gli altri, ma deve essere reciproco. Anche io, nel momento in cui ho avuto i figli, ho cambiato completamente le mie amicizie perché per forza di cose entrano in campo altre dinamiche, comprese le responsabilità nei loro confronti. Ognuno di noi ha degli impegni e non è detto che si riesca a conciliare. È un’utopia pensare che si possa continuare ad avere lo stesso tipo di rapporto che c’è tra due donne amiche davanti a un figlio, a un genitore, a un mutamento nella vita delle due. Non riesco a fare dieci cose contemporaneamente, cerco di farne una e bene; se non c’è il tempo di vedersi, mi auguro che, ad esempio, la mia amica che ho sin dall’infanzia senta che le voglio bene; poi esistono persone che, invece, pretendono così come ci sta che le amicizie finiscano e bisogna darsi pace perché cambi tu ed è anche giusto! Noi dobbiamo darci la possibilità di crescere e mutare e nel cambiamento, purtroppo, alcune relazioni si esauriscono».

D: Milena è riuscita a inserire due elementi che le appartengono: l’essere creativa e, nello specifico, la pittura… Partendo dal quadro bianco e dai colori, se in questo momento dovesse descrivere cos’è questo spettacolo attraverso un quadro?

«A dire il vero già ho dei dipinti che ho, appunto, creato durante la preparazione di “Sposerò Biagio Antonacci”. Sono i quattro elementi su quattro quadri verticali, ognuno con un colore primario. Ho usato bianco, azzurro, rosso e giallo. Ho dipinto la terra con una figura stilizzata con una pancia; l’aria con una figura che dà le spalle a chi guarda il quadro, inoltre ha una treccia lunghissima che vorrebbe quasi ancorare la persona alla terra, invece ha le ali; l’acqua l’ho pensata come se la figura raccogliesse proprio l’acqua; mentre il fuoco l’ho è in una posizione di meditazione. Li ho dipinti ascoltando Biagio Antonacci».

D: Nel corso dello spettacolo viene citata anche la sabbia in un momento molto toccante. Cosa scriverebbe adesso sulla sabbia?

«Faccio sempre una fenice stilizzata: è meravigliosa perché risorge dalle ceneri».

D: In alcuni precisi passaggi del monologo vengono utilizzate delle telecamere, di cui si scopriranno anche le funzioni reali (inquadrano spesso ciò che non si potrebbe cogliere da lontano o vediamo la prospettiva del primo piano da varie angolazioni) e simboliche all’interno di questa storia – non vogliamo spoilerare. Ciò che possiamo anticipare è che il circuito fatto installare all’interno della casa dal marito Luca per spiare Anna, la Mancini è riuscita a ribaltarlo anche in un’ottica positiva. Come ha avuto questa idea?

«Ho il complesso di Pollyanna: la vita è già troppo difficile, devo trovare qualcosa di bello. Non amo libri, film, serie che finiscono male, mi lasciano l’amaro in bocca; poi a volte è necessario e bisogna scriverli e girarli. L’esistenza è davvero già troppo complessa, uno deve cercare di vedere pure il positivo altrimenti mi arrabbio e [infatti ci confessa] che ha a portata di mano “Pretty Woman” o “Notting Hill” per ritrovare ‘l’equilibrio’».

D: Guardando al suo percorso, una frase che pronuncia Anna – «Io non sono in competizione con gli altri, ma con me stessa» – mi ha fatto pensare al suo modo di vivere la professione e non solo… Rispetto a queso monologo, qual è la sfida più grande?

«Farlo bene! Realizzare uno spettacolo [ancor più da sola] significa che devi pensare a fisico, memoria, sotto testi, pausa, musica, allo stare in una determinata posizione così come al ricordarti quando devi girarti verso la macchina da presa. È necessaria una precisione clinica; poi, quando si va in scena davanti al pubblico, il tutto deve sembrare il più naturale possibile. Sono quel tipo di attrice che ha bisogno di un regista che mi dica esattamente dove fare quella specifica azione. Ad esempio, per quanto riguarda l’emozione, ho perso mio padre l’anno scorso per cui parlare di lui è stato davvero faticoso così come dell’amore profondo che intercorreva tra lui e mamma. In prova ho avuto davvero timore di non riuscire a portarle a termine quella ‘scena’… poi quando vai sul palcoscenico, con le luci, sei da sola, coi tuoi pensieri e sentimenti e con le parole che stai dicendo che, ogni sera, possono provarti delle reazioni differenti in base a come gli spettatori te le rilancia. Quindi, entrare in competizione con me stessa significa che io sono stacanovista: devo farlo esattamente come mi è stato detto – dopo aver ragionato se ciò che mi viene richiesto è giusto o meno per me perché se non mi corrisponde posso chiedere, nel rispetto della figura del regista, di spiegarmi perché dovrei fare in quel modo.

Il grande lavoro compiuto con Vinicio è stato proprio sulla parola e sulla comprensione del sottotesto, per citare un esempio tangibile: ogni volta che nomino Luca (il compagno di Anna, nda) devo sorridere, ma con la consapevolezza (da attrice e drammaturga che conosce lo svolgimento della storia, nda) che sto dicendo una cavolata. Devo convincermi io affinché possa convincere il pubblico di qualcosa che non è vera. Il tutto con la possibilità di aprirmi all’improvvisazione; spesso con la pittura accade: si ha in mente un’immagine e poi ne viene un’altra».

D: A proposito della gestualità, di cui si percepisce lo studio approfondito, è arrivata dal testo che aveva generato o sempre da un continuo confronto col regista?

«Dal dialogo con Vinicio prima di montare lo spettacolo. Avevamo bisogno di creare un’intimità per questa donna. Se avessi declamato questo testo non avrebbe avuto lo stesso impatto con gli spettatori. Ora, al di là della consapevolezza che le telecamere siano entrate maggiormente nel linguaggio teatrale, ancor più durante il lockdown – ci sono stati tanti spettacoli in streaming con cui sono stati avvicinati alcuni che non seguivano il teatro -, sono state necessarie per evidenziare determinati particolari».

D: Quando, invece, avete deciso di utilizzare il primo piano?

«In quei momenti in cui ho immaginato che parlasse da sola; al di là della musica, in qualche modo Anna deve farsi compagnia. Spesso vengo inquadrata quando lei si pone delle domande, ha dei dubbi, si auto-giudica».

D: «Sento solo il mio cuore che batte forte, lui non usa la cinta, fa con le mani perché così non perde tempo. Adesso sono tanto stanca, mi scusi dottoressa, grazie per avermi ascoltata». Qui viene toccato un altro punto centrale l’ascolto. Rispetto a se stessa cos’ha scoperto che ha voglia di condividere?

«Sei attrice quando ti permettono di farlo. C’è un tempo per tutto,  ho combattuto per tantissimi anni arrivando ‘in finale’ e poi le scelte erano diverse. Riconosco che sono stata costante e ho continuato ad andare avanti; senza dubbio Vinicio mi ha sostenuta vedendo in me già dieci anni fa che ero una brava attrice.
Quando andavo ai provini e mi sentivo dire che ero stata brava, ma poi la scelta cadeva su un’altra [e non lo dice con invidia, ma con grande senso di realismo], viene naturale pensare: bella e brava ma non ballo? A un certo punto capisci che devi fare delle scelte perché se aspetti che arrivi dall’esterno… In questo momento storico ho avuto dei ritorni come lavorare con Stefano Lodovichi, con Gabriele Muccino e ancora scrivere e interpretare un mio lavoro con debutto nazionale al Campania Teatro Festival. Io avevo firmato l’adattamento di “Uno zio Vanja” così come quello che riguarda la Aleramo ne “La più lunga ora”, ma non avevo mai esordito con un mio testo. Forse era giusto che accadesse adesso, prendo tutto ciò e me lo godo, poi del doman non c’è certezza».

D: Com’è stato lo sguardo registico di Vinicio Marchioni (suo compagno di vita e spesso di condivisione artistica) su di lei?

«È stato fondamentale. L’ho fortemente voluto. Inizialmente volevo creare un gruppo di donne che si confrontassero tra di loro; poi c’è stato il lockdown e io ho necessità del contatto diretto, non avrei potuto preparare tutto questo su zoom. Ho quindi cominciato a lavorare con Vinicio, poi è arrivato Biagio, il light designer Dino Iovannitti è bravissimo, mi fa sentire libera e sono sicura che se una sera mi sposto lui comprende subito come illuminarmi. Ugo Chiti ha fatto i tour con Pino Daniele e so che lui capisce da come mi muovo se deve abbassare il microfono per non avere dei picchi di audio. In più volevo che gli uomini ci mettessero la faccia: ci sono tanti che picchiano, ma anche che amano sinceramente le donne. In questo periodo spesso sono bistrattati, non gli viene permesso di vedere i propri figli, vengono giudicati. Spesso si sente: non mi sarei mai aspettata che lui avrebbe agito così [non sta assolutamente giustificando gli atti di violenza], ma studiando i profili psicologici ho compreso come a volte ci siano delle donne, a volte segnate dalle urla subite da bambine, che diventano molto faticose e lo sto affermando da donna. Come reagisce a quel tipo di psicologia? Talvolta si verificano delle reazioni inimmaginabili che portano, ahimè, all’estremo atto».

D: Cosa le è rimasto de “Le 5 ferite e come guarirle” (secondo cui sono: rifiuto, abbandono, ingiustizia, umiliazione e tradimento – è  uno dei libri che ha letto durante lo studio)?

«Il libro offre una chiave per analizzare quelle fondamentali e come superarle, però magari ce ne sono altre più piccole che su una persona hanno un effetto più deleterio. Avrebbero dovuto intitolarlo “Le 5 e più ferite”».

D: Prima che il tuo monologo iniziasse, il Campania Teatro Festival ha mandato un estratto tratto da “Il mio nome è Cassandra” di Federica Bognetti, che recitava: «Il mio nome è Cassandra, avevo dodici anni quando ho deciso che avrei l’attrice… è una parola che ho sempre amato, tuttavia o la si afferma con orgoglio o si ha un rispetto tale che quasi si ha paura a pronunciarla. Io non potrò più pronunciare questa parola, non potrò più essere un’attrice. Diversi mesi fa ho letto una notizia in merito a una sentenza che prevedeva una nuova fattispecie di reato: il reato di violento abbandono. Allora ho pensato […] che anche io avrei potuto denunciarlo e l’ho fatto: ho denunciato lo Stato per il violento abbandono della sottoscritta. Io, poi, ho voluto anche aggiungere omissione di soccorso»… e prosegue. Immagino abbiano voluto mandarlo spesso prima degli spettacoli per la situazione che lo Spettacolo e la Cultura hanno vissuto, in particolare col lockdown.
Alla luce anche della sua riflessione di crearsi le occasioni se non arrivano e unendo il fatto che, nel monologo, alla sua Anna fa pronunciare la parola sopravvivere, se uno dovesse superare quella fase, ma vivere in quanto artista, qual è la sua posizione?

«Ritengo che si parli tanto degli attori, ma non abbastanza, ad esempio, dei tecnici teatrali. Si lamentano degli attori che, seppur con difficoltà, hanno lavorato e continuano a lavorare; mentre nessuno sa i nomi dei tecnici che sono a casa – quelli cinematografici e televisivi, pian piano stanno tornando in campo. A mio parere l’attenzione deve essere posta su di loro e sugli anziani – completamente abbandonati a se stessi – così come andrebbe rivista la scuola. I bambini in qualche modo hanno recuperato meglio di noi, poi avranno dei postumi. Sono state, in parte, sottovalutate le conseguenze psicologiche anche sugli adulti, ma è anche vero che non si può sempre aspettare che siano lo Stato o la madre o il padre a fare determinate cose, dobbiamo essere noi».

In chiusura, tornando a “Sposerò Biagio Antonacci” [di cui si avverte tutto il trasporto e il lavoro che ha compiuto], l’artista (non si può non definire tale visti i vari talenti, compreso quello di restaurare mobili, nda) ci saluta con una ‘chicca’, facendoci un vero e proprio dono: l’abito che indossa è proprio il suo del matrimonio e aggiunge: «l’ho fatto ricucire da mia madre per l’occasione».

Vi vogliamo ricordare che attualmente Milena Mancini, insieme a Vinicio Marchioni e ad altre coppie, è nel film di Daniele Vicari, “Il giorno e la notte” (disponibile su RaiPlay), girato da ogni attore direttamente da casa sua e guidato da remoto dal regista nel corso del primo lockdown.
Inoltre dal 20 al 25 agosto si svolgerà “Ginesio Fest” a San Ginesio nelle Marche, con la direzione artista di Mancini e Marchioni.

Maria Lucia Tangorra, ArtiMag.it

Luglio 2021