Occasione di riflessione sul tema della violenza di genere, al Campania Teatro Festival, il 26 e 27 giugno. Tuttavia, non solo su quello direi, dopo aver osservato attentamente per un’ora la appassionata performance di Milena Mancini sul palco buio. Diversi sono gli spunti che mi ha dato, oltre al genere, spero anche ad altri spettatori.
Sposerò Biagio Antonacci al Cortile della Reggia di Capodimonte
Come sono felice di essere tornata a Capodimonte per queste serate teatrali. Luogo fresco, silenzioso, si presta perfettamente ad accogliere tutti gli spettacoli del Festival, e lo avevamo capito bene già l’anno scorso, quando ancora si chiamava Napoli Teatro Festival e le sedie distanziate ci facevano impressione. Adesso, tutti qui seduti composti e “mascherati” con disinvoltura senza neanche guardare in cagnesco i più insofferenti che fanno emergere le narici, queste misure anti-covid non commuovono più nessuno. Non ci sono neanche messaggi di sensibilizzazione verso la condizione dei lavoratori dello spettacolo, eppure non mi risulta che stiano improvvisamente molto meglio. Diciamo che ci stiamo attaccando alla speranza di un autunno migliore, e chiudiamola qui, per tornare al nostro spettacolo.
Sposerò Biagio Antonacci: una donna in sottoveste.
Il palco sistemato nel bel Cortile della Reggia è buio, al centro di alcuni schermi c’è una sedia con un microfono, e telecamere puntate, in stile interrogatorio o intervista. Una donna entra con indosso una coperta termica, si siede togliendola e restando in sottoveste, forse una camicia da notte. E comincia a parlare con qualcuno, una donna, che ne sa nome e cognome, si chiama Anna, è sposata con Luca e alla sconosciuta con cui parla racconta della sua vita e del suo matrimonio. Solo al termine, in un finale inaspettato e forse un tantino buonista, capiremo che sta succedendo, ma non sarò io a dirvelo.
È dolce Anna, ci affezioniamo a lei dopo pochi episodi raccontati. È una ragazza qualunque, di buona famiglia, che si è diplomata e ha lavorato e poi si è innamorata, come tante altre. E si è sposata, presto. E ha smesso di lavorare, per pensare al marito e alla casa. E per problemi di salute non ha avuto figli: male, molto male.
Sposerò Biagio Antonacci: una donna e una comunità che la condanna.
Vediamo descrivere allora lentamente, attraverso i suoi racconti ingenui e i suoi sensi di colpa, un marito prepotente e possessivo, che, come ci immaginiamo già dalle note di regia, non la rispetta, la reprime, la maltratta. Ma non è solo questo che Anna descrive. Anna ci mostra anche la società in cui tutto questo avviene. Ovvero un ambiente in cui non è soltanto Luca a considerarla meno di niente.
È cresciuta mangiando pane e cartoni animati di cui, come molti di noi, non ha mai visto la fine (perché Netflix non c’era e quindi le puntate le dovevi beccare come capitava) e se ne ricorda solo concetti sconclusionati che le sono rimasti dentro come lezioni di vita in cui devi decidere se vuoi essere Pollyanna e gioire pure delle stampelle, Georgie e portarti a letto pure i fratelli, o Jeeg Robot e rinnegare la tua femminilità. Cavolo, vista così, ce la siamo vista proprio brutta noi ragazzine cresciute a cavallo tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90.
Ma per Anna non si tratta solo di questo. Anna ha un diploma magistrale, ma non è colta e non si ritiene intelligente, e forse nessuno l’ha mai ritenuta intelligente o nessuno ha mai considerato che potesse avere del potenziale. Appartiene a una cultura fortemente cattolica e molto poco intellettuale, in cui ci si affida a Gesù per le nascite, a Santa Lucia per smistare le preghiere e a “l’amica uncinata” per decidere chi muore. Forse anche a Santa Rita per salvarsi dalle pandemie.
I suoi genitori si sono amati. Sono stati una buona coppia e suo padre un buon padre. Ma, nonostante ciò, la cultura resta quella dei panni sporchi che si lavano in casa, e lei ora è in un’altra casa, in cui i parenti non devono mettere bocca.
Sposerò Biagio Antonacci: dettagli speciali del testo e dell’interpretazione.
Impossibile non immedesimarsi, da coetaneo, in lei quando racconta della malattia del padre, il momento in cui i suoi problemi, da figlia, perdono qualsiasi priorità, e Pollyanna al confronto diventa una dilettante, lei è più che Pollyanna, per non impazzire diventa Pollyanna livello Super Saiyan, e mentre è in ospedale immagina invece di essere in un aeroporto. Ti fa tenerezza Anna mentre lo racconta, e ti fai tenerezza tu stesso mentre ti concedi qualche pacca sulla spalla metaforica per tutte le volte che ti sei sentito in maniera simile.
L’unico momento di gioia autentica che percepiamo anche nei racconti della sua adolescenza, sono quelli delle musicassette di Biagio Antonacci che lei ascolta senza mai vedere per anni (eh sì, negli anni 90 poteva succedere anche questo) fino ad un incontro fortuito in cui guadagna addirittura un “CIAO” e che per lei rappresenta senza esagerare l’ancora di salvezza a cui attacca tutta la vita, al punto da provocare addirittura la totalmente irrazionale gelosia del marito.
Sposerò Biagio Antonacci: sorprese di musica e scenografia.
In tutto questo un ruolo particolarmente importante è giocato dagli schermi in bianco e nero, che si accendono in momenti precisi: quando Anna è tesa, si tortura le mani e gli schermi ce le mostrano nel dettaglio, quando Anna si emoziona, sgrana gli occhi e il viso si apre, si incanta nel trasporto o trema di struggimento e anche lì gli schermi prendono i suoi profili e i suoi dettagli e ce la fanno sentire particolarmente vicina. Una cosa dosata piuttosto bene che riempie lo spazio e dà risalto al coinvolgimento che Milena Mancini riesce a trasmettere.
Stupefacentemente, ho trovato ben dosata anche la musica. Confesso che avevo temuto di trovarmi di fronte a una specie di musical scandito minuto per minuto dalla discografia di Biagio Antonacci, cosa che lo avrebbe reso piuttosto grottesco, e invece nulla del genere, anzi, nei punti in cui i brani sono inseriti, canticchiati da Anna o solo accennati, acquistano e restituiscono anche una certa drammaticità al momento che forse avrei a priori sottovalutato.
Sposerò Biagio Antonacci: solo questione di genere?
Concludendo, le riflessioni che mi sono rimaste attaccate per diversi giorni non riguardano solo il difficile rapporto uomo-donna, o il problema degli uomini che sono “indegni di essere chiamati tali” come si dice nelle note di regia. Io credo che, intenzionalmente o meno, in questo spettacolo si metta in risalto come il problema della violenza di genere abbia un respiro molto più ampio, e che spesso siano le donne stesse e coloro che vorrebbero proteggerle a creare le condizioni perché questa si possa realizzare su di loro o su altre donne, o su altre persone. E con questo non voglio giustificare gli uomini vigliacchi e violenti, ci mancherebbe. Ma voglio provocare un’assunzione di responsabilità da parte delle comunità intere. Perché in queste stesse comunità soffocate da ignoranza, bigottismo, perbenismo, disattenzione e valori arcaici, si sviluppano poi non solo le violenze di genere, ma anche altri tipi di rapporti tossici che poi conducono anche ad altri tipi di violenze, forse statisticamente meno rilevanti, forse apparentemente meno vigliacche, ma pur sempre da non dimenticare.