Vinicio Marchioni e Milena Mancini portano sul palco una storia di violenza, ma soprattutto la voglia di liberarsi.
I femminicidi non diminuiscono. Le cronache raccontano di violenze sempre più efferate. Ogni tre giorni, una donna viene uccisa da un uomo. I soprusi continuano incessanti e inaccettabili così come i maltrattamenti e le molestie, lo stalking, la violenza psicologica e quella economica, il revenge porn e la violenza digitale.
Per fare fronte a questa mattanza quotidiana servono leggi, risorse, cultura e serve creare consapevolezza sia nelle donne che negli uomini. Per riuscire in questo intento, esistono molti modi e – non c’è dubbio – devono essere tutti percorsi, sperimentati e utilizzati. Perché di violenza se ne deve parlare ovunque, in qualunque modo, attraverso qualunque mezzo. Uno tra i più efficaci è il linguaggio dell’arte.
Tra gli spettacoli in programma nella rassegna “I solisti del teatro” tenutasi nella meravigliosa cornice dei Giardini della Filarmonica a Roma c’era anche “Sposerò Biagio Antonacci” di e con Milena Mancini con la regia (anche) di Vinicio Marchioni.
Una pièce che porta sul palcoscenico il tema della violenza di genere attraverso la storia della protagonista che, tra ironia, dolore, sofferenza e speranza, sogna di liberare se stessa dall’incubo dell’uomo che amava e con cui divide vita e quotidianità, lasciandosi cullare dall’idea, un giorno, di riuscire a sposare Biagio Antonacci.
La sua vita è spaccata in due tra la presenza e l’assenza del marito. Quando non c’è, canta, balla, sorride, sogna. Quando torna, è costretta a fare i conti con una realtà fatta di maltrattamenti, pugni al corpo e all’anima e il senso di colpa di non aver dato un figlio – dopo quattro aborti spontanei – al marito violento Luca che, puntualmente, giustifica e salva.
La magistrale interpretazione di Milena Mancini commuove, fa riflettere e, addirittura, fa amaramente sorridere. Una performance senza filtri né architetture di sorta, in cui l’attrice si spoglia dei panni di sé e veste quelli di una donna che dalla vita ha tutto da pretendere e sperare.
Una chiave narrativa, quella scelta da Mancini e Marchioni, che pone al centro, oltre a violenza e prigionia, una straordinaria resilienza e la voglia di fuggire lontano, convincendosi che in un tempo indefinito le cose cambieranno.
Un dramma che segnerà per sempre l’esistenza di Anna, la protagonista, anche dopo la morte del suo aguzzino. Le ferite emotive – molto più dolorose talvolta di quelle fisiche – non si rimargineranno ma in lei continuerà a vivere la speranza di riuscire, un giorno, a trascorrere la vita che sogna.
Un testo teatrale che mette in luce un dato incontrovertibile: è sempre femminicidio, anche quando la vittima sopravvive, perché lo farà costretta a convivere per il resto della sua esistenza con la morte di un pezzo di sé.
Protagonista dello spettacolo, manco a dirlo, lo stesso Biagio Antonacci che, con orgoglio, ha donato le ambientazioni musicali della pièce. Un’operazione coraggiosa, da vedere e capire, che rientra di diritto nelle azioni culturali positive di cui la nostra società ha estremamente bisogno.
L’auspicio è che questa e altre possono trovare casa e cassa di risonanza oltre i luoghi dell’élite, affinché possano assolvere completamente il ruolo di avamposti di futuro.