Vinicio Marchioni è bravo a custodire il suo segreto. Che è una tempesta annidata nella quiete, pagine private che scrive nella solitudine e in pochi hanno finora potuto, o saputo, leggere. Per il resto, vive di una postura salda ed elegante, di una voce controllata che solo di rado s’inceppa nella balbuzie che si porta dietro da bambino, uno stridore di «esse» e di «t» in gran parte guarito per merito alla recitazione. Poi c’è lo sguardo da marito devoto e padre attento, coperchio esistenziale di una carriera lunga e tambureggiante di successi: 40 film e venticinque anni di teatro all’attivo, appena consacrati con la nomination a migliore attore ai Premi UBU per il suo Chi ha paura di Virginia Woolf?, da conferire il prossimo dodici dicembre al teatro Arena del Sole di Bologna.
Nel profumo d’arancia della sua casa romana (lui e sua moglie, l’attrice Milena Mancini, hanno appena spremuto etti di agrumi per alleviare l’influenza a uno dei due figli) racconta di sé fumando una sigaretta elettronica dietro l’altra, senza voglia né di piacere né di non piacere, tutto presente a sé stesso come se l’oggi e il ieri fossero due vasi appoggiati al centro del tavolo, tridimensionali entrambi, senza gerarchie di valore. In questi giorni è sul set siciliano dei Leoni di Sicilia, tratto dal romanzo di Stefania Auci, progetto colossal per Disney+. Ha appena finito di girare Django, la serie internazionale Sky Original diretta da Francesca Comencini. E dal primo dicembre sarà al cinema con la commedia «afrodisiaca» Vicini di casa con Vittoria Puccini, Claudio Bisio e Valentina Lodovini, dove interpreta il lui di una coppia che, tra tentazioni di scambismo e allusioni sexy, riaccenderà l’erotismo di due sposi sensualmente appannati. «Noi per fortuna siamo intimamente vivi e non ci è mai successo d’immaginarlo», dice, mentre la moglie lo cinge in un abbraccio, prima di andare in palestra, «ma mi stuzzica l’idea di rimanere aperto alla possibilità: se amo la mia donna, ed entrambi proviamo piacere, perché no».
Questo silenzio domestico, questo profumo nell’aria, per un artista sono tanto oppure
sono sempre troppo poco?
«Tantissimo: perché le piccole cose, gli attimi di felicità, a me riempiono l’anima. Il rito della colazione per esempio, che se non riesco a fare come si deve poi resto nervoso tutto il giorno. Specialmente da quando ho girato Ghiaccio e ho iniziato a farmi seguire da un nutrizionista e personal trainer, l’ex campione dei pesi supermedi di pugilato Giovanni De Carolis. Ho messo in casa il sacco, la pera e la palla francese, quella che ti si stampa sul muso appena manchi un colpo. Perché il pugilato è la cosa più vicina alla vita e al mestiere dell’attore: se gli schiaffi non li
prendi, poi non acquisisci la forza per rialzarti».
Di botte vere, in casa o per strada, ne ha prese?
«Da mia madre tante, cresciuto in tempi in cui i genitori ti rompevano il cucchiaio di legno sulle gambe, cosa che per fortuna non si usa fare più. Per strada invece no, perché non sono mai stato un cuor di leone. Sono cresciuto in periferia, nel quartiere romano di Fidene, e mi piaceva stare in mezzo a quelli che facevano macello, gente che spacciava droga e rubava motorini. Ma piuttosto che darle, mi comportavo da stratega. Diventavo amico del più bullo e del più fico della compagnia e pianificavo le spedizioni punitive contro i ragazzi delle borgate vicine, quelli del Tufello o di Val Melania. Ma poi, per puro istinto di sopravvivenza, mi tiravo indietro quando volavano pugni. Ancora oggi la violenza mi ferisce e mi paralizza. E ho un ricordo tremendo di mio padre e di mio nonno che si picchiano, una scena che mi ha segnato tanto e richiamo ancora oggi alla memoria se devo affrontare ruoli violenti. Il mio insegnante di boxe dice che il mio non è timore dei cazzotti, quanto piuttosto paura di far male davvero a qualcuno. E ha ragione: sono uno che quando gli si chiude la vena, non ci vede davvero più».
Questa rabbia è antica o è nuova?
«Antichissima. E credo che alla fine mi abbia salvato lo sport. Poi un professore di Lettere illuminato che mi ha mostrato che là fuori c’era anche la bellezza. E infine fare l’attore, che mi ha dato un’identità, mi ha regalato il mio posto in questa vita».
Incuriosisce il suo stato su whatsapp: «ciclotimico».
«Sono un umorale e non ho vie di mezzo, è vero. Un entusiasta della vita che utilizza l’ottimismo per tenere a bada i mostri: ma quando arriva il down, è tutto davvero nero nero. Mi chiudo in una stanza e divento distruttivo verso me stesso, inizio a ragionare sul fatto che viviamo grazie a una stella che prima o poi si spegnerà, che crediamo di avere ragione su tutto quando siamo solo un puntino tra miliardi di galassie, e che l’essere umano è una bestia in grado di commettere le atrocità peggiori. Quando entro nel gorgo di questi ragionamenti, invoco l’estinzione».
Cosa le dà conforto?
«Una poesia di Ungaretti: Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata. Sto con le quattro capriole di fumo del focolare. Io faccio lo stesso: davanti al caminetto, guardo le fiamme, mi ubriaco da solo, e vaffanculo a tutto quanto».
Vino?
«Se sono al primo stadio del pessimismo sì, una bottiglia o due. In fasi più avanzate rum e un whisky. Oppure vodka, che è il passaggio ultimo, quello della vera obnubilazione».
E tutto questo dove succede?
«A casa, senza pericolo alcuno per me stesso o per gli altri. Mi chiudo senza dar fastidio a nessuno, chiedendo solo che nessuno mi rompa le scatole, sotto lo sguardo comprensivo di mia moglie che, da artista, è consapevole dei voli che le nostre anime ogni tanto hanno bisogno di fare. Niente di patologico eh, sia chiaro. Succede in media ogni cinque o sei mesi. E in un paio di notti, tutto va via».
Tra i sintomi della ciclotimia viene citata la «scarsa capacità di giudizio che può sfociare in un comportamento rischioso o in scelte imprudenti». Le capita?
«Ora no, ma da ragazzo succedeva. A vent’anni bevevo tanto e nell’alcolismo ci sono quasi cascato. E ho il ricordo di me davanti a una finestra aperta, al settimo piano, con certi pensieri brutti che mi mangiavano. Poi la maturità, i figli, l’amore, hanno cancellato ogni cosa».
A dicembre e gennaio la città di Ascoli le dedica una retrospettiva. In che senso un tale
onore la lascia spiazzato?
«Mi lascia spiazzato perché sono uno che si meraviglia ancora quando qualcuno lo chiama a fare questo mestiere. Una sorta di sindrome dell’impostore che mi fa pensare che prima o poi si accorgeranno che non sono bravo, e che a darmi fiducia si sbagliano tutti da vent’anni. Nei monitor sul set non mi rivedo mai, perché mi do fastidio da solo. Alle proiezioni pubbliche mi presento, saluto gli spettatori e poi mi nascondo da qualche parte finché il film non è finito: le volte che mi sono rivisto sono stato malissimo. È una cosa che mi devasta proprio l’anima».
Quando gira tutto bene, come adesso, le viene da distruggere tutto o da proteggere tutto?
«Prima distruggevo, ora ho imparato a salvaguardare, e far sì che la fortuna continui a guardare dalla mia parte. Ma sempre con la paura che finisca tutto, con la consapevolezza che questo mestiere è un po’ come scrivere sulla sabbia. Credo che per fare l’attore occorrano tre cose: avere orrore di sé stessi, il senso della morte e la vergogna della presenza. Essere compiaciuti del talento o della propria bellezza è un insulto a questo mestiere. Un attore disinvolto, per come la vedo io, è sempre uno stronzo».