Stefania Saltalamacchia, Cosmopolitan

20/02/2022

Vinicio Marchioni, l’elogio della verità

Va detta per continuare a stare insieme, come in Chi ha paura di Virginia Woolf. E la verità è sempre al centro del nuovo progetto dell'attore. «Meglio se dopo due bicchieri di vino», spiega. In mezzo, tanto cinema perché «non mi accontento mai, voglio continuare a crescere. E crescere significa fare nuovi incontri»

La valigia dell’attore di Vinicio Marchioni è piena. Camaleontico, perfezionista e mai scontato, solo nell’ultimo anno ha alternato una lunga tournée teatrale (Chi ha paura di Virginia Woolf), a diversi film (Siccità, Grazie Ragazzi, Vicini di casa, solo per citarne alcuni), passando per una serie internazionale (Django) appena arrivata su Sky. E ancora il set dei Leoni di Sicilia e un nuovo spettacolo teatrale «fatto in casa» che arriverà presto. Quando tutto gira così bene cosa succede? «Prima tendevo a voler distruggere, ora punto di più alla conservazione. Ma resta sempre la paura che finisca prima o poi tutto», risponde Vinicio, 47 anni, 40 film e 25 anni di teatro, a voler dare i suoi numeri.

Credi sia un tratto caratteriale il non sentirsi mai al sicuro o fa parte solo del mestiere?
«Entrambe le cose, ma direi che c’è tanto di caratteriale. Da una parte non sono mai soddisfatto di quello che faccio, dall’altra mi annoio tremendamente di un ambiente dove se uno viene conosciuto per una cosa deve continuare a fare quella cosa tutta la vita. Io ho sempre cercato di procedere in altro modo, scegliendo ruoli distanti l’uno dall’altro. E poi non mi adagio mai perché io stesso mi rompo le scatole di me stesso dopo due minuti. Non mi accontento, voglio continuamente crescere e per me crescere vuol dire avere l’opportunità di fare degli incontri meravigliosi».

Su WhatsApp ti definisci ciclotimico. È un avvertimento per i giorni storti?
«Non l’ho mai letta così, ma mi fa piacere se si pensa questo. In realtà vuol dire che sono un umorale, uno molto lunatico. Cerco di mostrarmi nel modo più equilibrato possibile, ma sono una persona che alterna gli stati d’animo in una maniera incredibile. Sono molto emotivo, senza vie di mezzo. Quando arrivano i giorni no, vedo tutto davvero nero».

Cosa ti dà pace?
«La natura, l’osservazione della natura è quello che mi rimette in asse con il mondo. Andare a fare una passeggiata su una montagna o sedermi di fronte al mare».

La leggerezza fa parte di te?
«Assolutamente sì, ed è una cosa che si acquisisce col tempo. I primi anni che facevo teatro ero di una pesantezza insopportabile. Con gli anni, con gli schiaffi della vita, ho imparato a essere più leggero. Te lo insegna anche il cinema. Quando fai una scena e il regista ti dice che è chiusa, quella scena è davvero è chiusa. Un pensiero, questo, che per un attore teatrale è difficile da accettare. I primi tempi tornavo a casa e mi maledicevo, dicevo “quella scena potevi farla molto meglio”. Col tempo, invece, ti prendi anche meno sul serio, capisci che non salvi vite».

Una cosa che ti dà molto fastidio?
«Sui social oggi si parla solo di numeri, di visualizzazioni, penso invece che le nostre anime abbiano bisogno di sognare per sopravvivere a questi numeri. E noi attori che ci occupiamo delle anime delle persone avremmo bisogno di maggiore considerazione. Dovrebbe esistere una società in cui il teatro e il fare cultura in genere sia un fatto fondamentale».

A questo proposito di recente su Instagram hai scritto il tuo personale elenco dei vaffanculo. Per citarne alcuni: «Fanculo ai numeri dei follower, fanculo all’ipocrisia e al vuoto dei rapporti. Fanculo a questa epoca dell’ego, del narcisismo, dell’egoismo»,.
«È stata una cosa molto improvvisa, perché sono ciclotimico davvero. Tutto è nato dopo un episodio che mi ha confermato come tutto oggi venga fatto in base al numero dei follower e questa cosa, diciamolo, fa schifo. Io non sono disposto a cambiare i miei 25 anni di sacrificio, di passione, di libri, di fatica, di incontri, di studio, per avere un milione e mezzo di follower. Io uso i social perché anche questo oggi fa parte del mio lavoro, ma non sono disposto né ad acquistare follower finti, né a farmi 10 selfie al giorno per avere più visibilità. E se questo sistema non riconosce i 25 anni di fatica, sono contento per tutti gli altri ma io sto da un’altra parte».

Quale? Cos’è che ti fa sempre amare il tuo lavoro?
«La possibilità di mantenere estremamente viva la curiosità rispetto all’essere umano, è un mestiere che ti costringe a fare delle domande, sui personaggi che interpreti, sulle persone che incontri, su te stesso. Mi chiedo continuamente chi sono, chi siamo. Perché si provano determinate emozioni. Il risultato è un esercizio continuo di empatia ma anche di compassione nei confronti di noi uomini. Aiuta a continuare ad aprire camere della nostra anima, a conoscere dei punti profondi che se avessi fatto altro non avrei mai conosciuto. A volte, certo, fa paura».

Chi ha paura di Virginia Woolf è arrivato alle ultime date, dopo una lunga tournée. Che cosa ti lascia?
«Intanto per me è come se ogni sera lo portassi in scena per la prima volta, è merito della potenza di questo testo scritto da Edward Albee. Ovunque è andata benissimo, a Roma poi è esploso. Il pubblico mi ha detto cose meravigliose, ho visto in platea giovani, studenti, appassionati e colleghi. Il complimento più bello? “Mi volevo alzare dalla sedia per essere lì sul palco con voi”, detto da un collega. George, il mio personaggio, è un grande fallito che ama tantissimo la propria donna, interpretata da Sonia Bergamasco, che è anche lei una donna orribile. Quello che si dicono è un gioco al massacro costante, ma loro due hanno trovato un equilibrio incredibile. Un modo di amarsi attraverso queste verità che si sbattono in faccia nella maniera più cinica e ironica possibile. Ho capito che senza ironia non si va da nessuna parte. Dopo più di ottanta repliche fatte, dico che questi due si amano davvero alla follia. La grande lezione di questo testo per me è che per stare insieme bisogna dirsi la verità anche quando fa male, e bisogna dirsela con un po’ di ironia».

È questo il consiglio che daresti anche a una giovane coppia?
«Questi due stanno insieme da vent’anni e hanno una consapevolezza dell’altro molto forte, cosa che una giovane coppia non può avere. Oggi come oggi, però, mi sembra molto semplice che le persone si lascino, mi sembra molto semplice che litighino. Basta pensarla diversamente per, forse, non vedersi mai più. Credo sia profondamente sbagliato perché il vero dialogo è fatto anche di scontro, e poi di verità».

Il tuo prossimo spettacolo parla di verità. In vino veritas, che debutta a Roma all’Auditorium Parco della musica il 4 marzo, l’hai scritto insieme a tua moglie, Milena Mancini. Che cosa si prova dopo tanti anni a lavorare insieme?
«Aggiunge un altro punto di vista, uno sguardo e un animo completamente diversi. E questo ogni tanto ti spiazza e ti mette costantemente in discussione. L’esercizio continuo dell’ascolto, anche quando non siamo d’accordo reciprocamente, ti obbliga a riflettere su una battuta su una cosa da aggiungere, e questo anche ripensando a Virginia Woolf è l’esercizio più difficile da fare».

Che cosa porterai sul palco?
«Dopo questi anni di grandi tournée e di grandi personaggi ho sentito il bisogno di avere un dialogo con il pubblico più diretto, condividendo qualcosa di molto più personale. Ed è per questo che attraverso i ricordi di mio nonno, a cui sono stato molto legato e che poi per i giri della vita ho per un periodo perso, porterò in scena una serie di brani della letteratura e della poesia legati al vino. Mio nonno era un contadino e mi ha fatto scoprire il vino e la natura. Aveva fatto la guerra, aveva quel tipo di saggezza lì, fortemente legata alla terra e non ai libri, legata a un mondo che oggi non esiste più.

In vino veritas si può dire qualsiasi cosa?
«Mio nonno diceva che un uomo non è mai sé stesso se prima non beve due bicchieri di vino e penso sia vero. Sicuramente aiuta eliminare un po’ di razionalità».

Desideri futuri?
«Ho sempre avuto un atteggiamento molto tranquillo rispetto a quello che succede. Mi viene in mente un’intervista in cui allo stesso tavolo erano seduti Tom Hanks e Robert De Niro e riflettevano su cosa si prova quando non ti chiama nessuno e quando sei il più grande attore di tutti i tempi. La loro risposta era sempre la stessa, ossia “stai tranquillo, passerà”. È sempre quella che mi do anch’io».

Stefania Saltalamacchia, Cosmopolitan

20/02/2023