Cristina Lacava, IoDonna

31/12/2022

Vinicio Marchioni: «Racconto i perdenti con leggerezza»

Al cinema è un detenuto che cerca il riscatto con il teatro. Sul palco ha messo in scena Čechov, che usa l’ironia per raccontare l’umanità. All’amato autore russo Vinicio Marchioni ha dedicato la casa di produzione fondata con la moglie Milena. Con la quale divide la vita, il lavoro e una mattonella “speciale”

Quanto può cambiarti la vita il teatro? Fino a che punto ti aiuta a scoprire una parte di te e ti insegna a condividerla? Ne parliamo con Vinicio Marchioni, 47 anni, che non solo ha interpretato 40 film ma ha alle spalle anche 25 anni di palcoscenico.Ora è uno dei protagonisti di Grazie ragazzi, il film di Riccardo Milani in uscita il 12 gennaio.

La storia è semplice, commovente, con personaggi credibili e un bel po’ di ironia: un attore fallito, che vive doppiando film porno (Antonio Albanese), riceve l’incarico di tenere un corso di teatro in un carcere. Dopo le iniziali difficoltà (gli alunni partecipano solo perché l’alternativa è lo yoga che a loro non sembra, diciamo, da maschi), le lezioni spiccano il volo quando il maestro decide di mettere in scena Aspettando Godot. Infatti chi, più di un carcerato, conosce il senso dell’attesa? Nel gruppo degli aspiranti attori si inserisce a un certo punto con prepotenza Diego, uno al quale nessuno può dire di no. Ed è, appunto, Marchioni.

Chi è Diego?
Un criminalotto molto rispettato, che si iscrive al corso di teatro perché curioso e abbastanza portato. In realtà poi scopriremo che ha una motivazione personale più profonda.

Il film mostra come il teatro riesca a trasformare chi ne è coinvolto. Secondo lei fa questo effetto a tutti?
Sì, è una delle conseguenze meravigliose del fare, insegnare e condividere il teatro. In particolare per i reclusi, che magari non hanno avuto l’opportunità di uscire dal loro mondo attraverso la cultura. Aggiungo che mettersi nei panni degli altri è un grande esercizio di democrazia, perché significa interrogarsi sulle motivazioni che spingono le persone ad agire. Più le domande sono su qualcosa che non ci appartiene, che è distante da noi, e meglio è. Il teatro abbatte distanze, differenze, muri.

In Zio Vanja, che lei ha messo in scena, il tema dei perdenti è molto presente, come in Grazie ragazzi. La affascina?
Veniamo educati con l’idea che se non si arriva primi si è perdenti. Invece credo che la vita sia un viaggio per conoscersi e cercare di migliorare, e che il finale sia uguale per tutti. Ma proprio questa condizione comune di sconfitta è il motore che ci spinge a crescere, andare avanti. In Čechov ma anche in questo film si mette in scena la ricerca costante di un’utopia. Il pubblico può trarne delle riflessioni e uscire dalla sala diverso da prima.

Vinicio Marchioni: «Cechov tratta la complessità con ironia»
La casa di produzione Anton Art House che ha fondato insieme a sua moglie Milena Mancini è un omaggio ad Anton Čechov?
Sì, è uno dei miei autori di riferimento. Mi ispira anche perché tratta temi complessi – come l’essere inadatti alla vita – con leggerezza e ironia. Lo stesso graffio di cinismo che troviamo nella grande commedia all’italiana.

Altri autori di riferimento?
Albert Camus.

Diciamo che la leggerezza non gli appartiene.
Sì ma c’è un grande approfondimento. Con la Anton e Milena abbiamo messo in scena Caligola, un testo al quale ritorno spesso quando faccio stage nelle scuole, perché tratta la smania di potere ma anche l’amore, la solitudine, la poesia.

In primavera porterà all’Auditorium di Roma In Vino Veritas, un viaggio intorno al culto del vino e un omaggio a suo nonno, come scrive nella presentazione. Che c’entra suo nonno?
Mi ha iniziato alle gioie del vino e all’amore per la natura. Era un contadino, amava più la terra dei figli, ma con gli anni e la giusta distanza ho imparato ad apprezzare i suoi insegnamenti. Ci faceva assaggiare la terra per capire se fosse buona per la semina, ci faceva guardare la Luna per gli animali, le nascite. Era un uomo che aveva fatto la guerra ed è lui il filo rosso che collega le pagine di letteratura che ho scelto sul vino, da una poesia di Baudelaire all’Odissea con Ulisse e il Ciclope. Ci ho inserito anche un racconto in dialetto calabrese, per non dimenticare le mie origini. Dopo anni di drammaturgia e di maschere, volevo condividere con il pubblico qualcosa di più intimo, un dialogo a tu per tu.

Il bello del teatro è proprio il rapporto diretto tra artista e pubblico. Sarà per questo che dopo la pandemia ha riconquistato i suoi spettatori, a differenza del cinema?
Il teatro si può fare solo su un palco, con un attore e un pubblico. Servono un luogo e due protagonisti, come in chiesa. Per questo il teatro ha qualcosa di sacro, anche dopo duemila anni. Dall’altra parte c’è l’offerta smisurata delle piattaforme tv, che hanno aumentato le proposte ma portato anche a un appiattimento. Mi fa un po’ paura l’algoritmo che ci suggerisce cosa ci può piacere e decide per noi. Si smorza la curiosità e si creano prodotti molto simili, con gli stessi ingredienti per tutte le serie. La vastità di contenuti a disposizione è preziosa. Ma si perde l’esperienza del cinema, della condivisione delle emozioni con gli altri e anche un certo linguaggio.

Però il suo ultimo film, Vicini di casa, sta andando bene. Se l’aspettava?
È stata una sorpresa, anche perché i film italiani che hanno incassato negli ultimi mesi, Siccità e soprattutto La stranezza, hanno un timbro diverso. Vicini di casa è una commedia di grande qualità, dopo anni di cinepanettoni ci voleva. Come ha detto Alberto Barbera, direttore della Mostra del Cinema di Venezia, dobbiamo difendere la qualità dei nostri progetti. Per produrre tante serie tv una dietro l’altra gli sceneggiatori non hanno il tempo di approfondire la scrittura, le dinamiche dei personaggi. Le differenze si vedono nei risultati.

Ha alle spalle 40 film e 25 anni di teatro. Qualcosa che non rifarebbe?
Credo che la carriera sia ciò che si è costruito passo dopo passo. Forse mi sarei potuto risparmiare qualche film dopo 20 sigarette, ma la storia non si fa con i se e con i ma. Sono orgogliosissimo del mio percorso e di riuscire ad alternare cinema e teatro. Mi auguro di poter continuare a permettermi di scegliere i ruoli.

Che cosa le ha dato e cosa le ha tolto il successo?
Massimo Troisi diceva: il successo è una lente d’ingrandimento, aumenta quello che sei dal punto di vista più personale. Da una parte ti dà la serenità di vivere del tuo lavoro e di scegliere. Però te ne toglie anche un po’. Certo, è bellissimo quando ti fermano per strada, io ascolto sempre il pubblico che è il primo e unico giudice del mio lavoro. Però ci sono momenti in cui l’attore si chiude a riccio per studiare e dovrebbe restare invisibile. Come personaggio pubblico, sento la responsabilità, so che le mie parole arrivano a tante persone. Un attore non è un influencer, non deve per forza esprimersi su tutto.

Però fa parte dell’associazione di categoria Unita, presieduta da Vittoria Puccini.
Vorremmo arrivare al riconoscimento della categoria. Quando si parla di attori e attrici si pensa a 20-30 nomi noti. Ma bisogna occuparsi di tutti gli altri. Nel teatro c’è un contratto nazionale, nell’audiovisivo non c’è niente. Eppure la cultura non è di sinistra, tanto meno di destra. È di tutti. Andrebbe protetta.

Vinicio Marchioni: «Ho più di un romanzo nel cassetto»
Prima di fare l’attore, lei voleva dedicarsi alla scrittura. Ce l’ha un romanzo nel cassetto?
Anche più di uno! Ma ho un gran senso del pudore e una certa riservatezza. Magari l’anno prossimo potrebbe essere quello buono, chissà.

Si è di nuovo iscritto all’università. Esami?
Neanche uno, purtroppo. Spero di diventare anziano per ricevere la laurea ad honorem e far contenta mia madre. Anche se il più contento forse sarei io: in questi anni ho tanto letto e studiato.

Il suo lavoro è coinvolgente e faticoso. Ha iniziato a farsi seguire da un personal trainer per il film Ghiaccio, in cui interpretava un ex pugile. Continua ad allenarsi?
Per il film ho lavorato tre mesi affiancato da Giovanni De Carolis, ex campione mondiale dei pesi supermedi. Ora non riesco a farne a meno. Grazie a Giovanni ho scoperto che la boxe ha molto in comune con il mio lavoro. Ti alleni, fai una fatica tremenda in vista di un incontro e alla fine può succedere che perdi. Anche l’attore studia da solo, fa un allenamento fisico ed emotivo costante per un film che poi magari non vede nessuno.

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Con sua moglie Milena Mancini avete messo in scena spettacoli che hanno visto in tanti, come quello su Dino Campana e Sibilla Aleramo per il quale iO Donna vi aveva intervistato qualche anno fa. Come lavorate in coppia?
Nei ritagli di tempo. Facciamo le riunioni alle due di notte quando i figli sono a nanna e abbiamo sistemato le incombenze domestiche. Pensiamo al nostro lavoro come artigianale, e questo ci unisce. Partiamo da un’idea, la abbozziamo e pezzo dopo pezzo la mettiamo in pratica. Scegliamo i progetti in base a quello che veramente ci va, e stiamo mettendo in moto sempre più cose per i giovani.

Avere figli aiuta a pensare a una prospettiva futura?
Credo di sì. Quando i bambini erano piccoli studiavamo Čechov. C’era una battuta in Zio Vanja che mi aveva colpito: “Chissà se tra 2-300 anni si ricorderanno di noi con una parola buona”. Bisogna lavorare per i giovani, trasmettere loro la tradizione antica di questo mestiere, far capire che non si fa per il successo ma perché si ha una responsabilità. Su questo io e Milena andiamo di pari passo.

Sullo schermo del computer fa capolino per un saluto Milena Mancini, attrice di cinema e teatro. Durante l’intervista del 2017, lei e il marito ci avevano parlato del loro patto d’amore. Quando si erano messi insieme, Milena gli aveva chiesto: «Ti preparo la vita o ti preparo il caffè?». La domanda era stata poi incisa su una mattonella, appesa in cucina. Dopo cinque anni, vale la pena di chiedere se la mattonella sia sempre al suo posto. «Certo. Vado a prenderla», risponde lei. Dopo un minuto torna, la mattonella in effetti è ancora integra. «Sappiamo che ce la possiamo tirare in testa», dicono entrambi ridendo, «e questa possibilità ci tiene vivi».

Cristina Lacava, IoDonna

31/12/2022